L’ultima settimana d’agosto arrivò a Fabius lentamente, in un susseguirsi di certezze parzialmente richieste, non veramente volute, sul versante est della spiaggia di Lignano Sabbiadoro, Italia.
Fu così che lui si accorse di aver pensato a lei per ogni pomeriggio di solitudini cercate dentro il profondo dell’anima, in un estraniamento della realtà di cui era maestro indiscusso, come indiscutibile era l’involontà di confessarlo a se stesso, che sì, la passione giovanile per la letteratura doveva averlo irrimediabilmente alterato, nelle percezioni almeno, e su troppi romanzi felici aveva costruito la propria esigente infelicità di delusioni e terrori, per una vita che lo aveva ingannato con aspettative quasi realistiche in fondo, mossesi con il ritmo lento e costante di un verme solitario che silenziosamente s’ingrassa tre volte al giorno d’insicurezze.
Tre volte al giorno lei non mangiava, di certo, ma lui si accorse di non averci mai pensato prima, prima d’esser tornato indietro a cercarla alla sera del nuovo lunedì in cui rientrava a lavoro, ventuno giorni e otto ore dopo, per non averla trovata al mattino. Così che si attardava nel bar di fronte in un’impropria colazione prematura non preventivata, senza nemmeno riuscire a percepire il sapore del gipfel che ingoiava di morsi rapidi e difficili per eccesso d’angoscia, nel tentativo inesperto di spingere in giù anche il terrore di una sua improvvisa scomparsa e di cosa farne dell’abitudine indirizzata, che lei era oramai parte di lui inconsapevolmente, avendolo accompagnato per mano mentre s’attardava in un’inutile estate di tempo addomesticato e perduto senza sapere, quanto ne aveva ancora nell’albo dei giorni immaginati e mai veramente vissuti. E vissuto finse di esserlo per davvero, per un eventuale incontro quasi accidentale con lei che dopo due ore non si era ancora presentata all’appuntamento che lui le aveva fissato, lasciandolo sconfitto nella sua recita privata in automobile, fino al momento del termine, in cui Sabrina avrebbe iniziato a domandarsi, e si concluse a rincasare prendendo una birra al chiosco del kebab dall’altro lato della strada per poter dire alla moglie che sì, con Arnaud era andata bene, cioè bene normale, e che avevano passato una serata tra amici a parlare di hockey e di niente in una di quelle sere in cui tanto non ti saresti divertita, e no, non perchè lui si era appena separato, ma che poi in fondo è qui che si vede l’importanza dell’avere una famiglia, per le certezze apparentemente ininterrotte del rincasare. E a rincasare Johanna non ci aveva pensato proprio, in quella sera di poco prima in cui si era accorta di non poter più nascondere la gravidanza e nemmeno di poterla mostrare. Aveva deciso bruscamente, come per ogni giornata precedente, quello che sarebbe stato il corso dei giorni abilmente manipolati dalle emozioni primarie. E primariamente aveva rinunciato a tutto per non poter rinunciare ad una cosa, alle conseguenze dell’amore accudito e assecondato che aveva trovato in lei tutte le porte aperte e vi era entrato senza bussare.
E chiusa era invece la porta di Sabrina, che non riusciva a dormire quella notte per un senso indecifrabile di vuoto che aveva percepito nel rituale delle continue non chiacchierate con il marito, sentendosi sola come una foglia ai primi di settembre che inizia a sentire il sapore del futuro dietro la porta, in una casa di quattro persone e quarantotto piatti quotidiani da lavare in silenzio. Lui non se ne era accorto nemmeno, completamente immerso dentro l’unico amore che era capace di provare, quello per se stesso, completamente imbevuto di monologhi e autoerotismi, e qualche manciata d’inutili cianfrusaglie che gli regalavano il senso del niente. Al niente lei si era nel frattempo abituata, inciampando solo di tanto in tanto in evocazioni romanzate ai suoi stessi occhi, che non facevano che aumentarle quella fitta quasi inspiegabile sul seno, che lui dovette notare la sera del giorno in cui finalmente la rivide al solito posto di prima, solito nei suoi pensieri, perlomeno. Era bella di una bellezza più pulita dell’ultima volta, se ne era accorto subito, confrontandola con l’immagine sbiadita che aveva ripetutamente richiamato alla mente nei pomeriggi di lavoro davanti al computer, lui che pulito non era ma che comunque si raccontava molto bene. Così che lui la guardava quasi negli occhi mentre lei raccontava agli altri di un nuovo locale che aveva aperto nella Niederdorf, dall’altra parte del lago, verso la Hauptbahnhof, e che lasciava una quantità imprecisabile di ottimi avanzi tra cui rovistare, e che lei stessa vi era stata in questa sere, e che avrebbero dovuto tornarci tutti insieme, come a una tavola improvvisata, cercando un senso immaginario di famiglia che si era perduto nelle notti di mille romanzi da ingoiare a stomaco vuoto. Fu così che mentre parlava cercava di contrattare una pausa con quel dolore insistente che le chiedeva più d’una spiegazione a cui lei rispondeva con un accennato sorriso di copertura sforzandosi fino a sfinirsi, e la fine vide lui nei suoi occhi vedendola accasciarsi irrimediabilmente ai piedi impietosi di una panchina di strada.