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Garschinahütte – Sulzfluh. Quella felicità che bisogna prendersi da soli.
la mezzanotte, quasi come le altre notti, dove non l’hanno attesa in molti, specializzandoci.
Sufers, 127 abitanti di cui nemmeno 50 bevevano il vin brulé insieme a noi, sotto il tetto della stessa stalla, nel nido rilasciato dall’incontro di svariate tobleroniche montagne e in viso il lago, coprivasi di neve lasciandoci involtati, attarallati direbbe qualcuno, in un mondo piccolo come una casa illuminata dalla luna.
Col nuovo anno poi eravamo in quattro, su una panchina di neve alla cima altissima del monte, a buttarci giù in slittino biposto dentro del nulla, e le schegge di neve a scostarsi piano sul nostro viso. Così, di dentro una conca di caldo e baci, abbiamo aperto gli occhi sul 2010.
E vogliamo credere sia solo l’inizio.
Felice inizio per tutti voi.
Il problema era, semmai, che l’avevano capito tardi, o perlomeno, tardi non lo era veramente, ma quella era la sensazione ch’ebbero nell’animo al termine delle riprese, al termine definitivo delle cose, quando non rimanevano più parole in fondo alla gola nè sguardi da aggiungere.
Il termine, a volersene guardare sinceramente, lo avevano raggiunto molto tempo prima, prima del più bello dei giorni, lo avevano raggiunto in ogni pomeriggio solitario in cui non erano già più insieme pur essendo nello stesso luogo, muovendosi sulla stessa canzone.
Lo avevano anticipato nell’ondeggiare lento delle cose che procede nonostante il vento, nel perdersi e non perdersi dell’interrogarsi pur di scansare risposte più e più volte conosciute e respinte sul sapore di un nodo stretto in gola, e mille altri nodi in fondo al pettine da liberare.
Non si erano mai soffermati poi sul termine lento di un pomeriggio a veramente chiedersi, chiedersi mani nelle mani quale che fosse il fine ultimo di tanta fatica, di tanto cercarsi e respingersi, stringersi e allontanarsi per continuare a cercarsi ancora nel buio di una notte, quando l’abbondanza di spazio sotto le coperte gli gelava i piedi e le mani, e nell’umano tentativo di cercar pace poi sul finire si trovavano scontrandosi, con l’aria di chi non si era cercato veramente ma si era lungamente esercitato nel farsene una ragione per il bene di tutti.
Non lo sapevano. Non lo sapevano definire il senso generale d’incompletezza che gli riempiva testa e pancia d’una leggerissima inquietudine sul sopportabile, e per quello che non osavano definire si rinchiudevano, in un silenzio arricchito di sorrisi di circostanza e crolli invisibili, avanzando risposte generiche a scanso d’equivoci, a scanso di quelle che non si possono pronunciare, intrattenendosi.
Del resto, non rimaneva molto altro da dire se non che nulla che avessero veramente in comune fosse mai esistito, nulla che li legasse, che non fosse quel generico senso di solitudini d’avanzo cui essi tentavano malamente di porre fine stringendosi un poco. E stringendosi speravano di non dover sentire il freddo contro il ferro della testata, contro l’asciugamano da single del mattino, contro le domande degli altri.
Si erano incontrati in un’aula scarna di liceo, davanti a una lavagna cancellata male, a rivelare la noia di una vita sempre uguale di bidella per disperazione, per dare dai mangiare ai tre figli che non c’era il tempo di tirare su a dovere per colpa delle tasse e della stessa noia di trent’anni prima nella stessa aula.
Era un inizio di settembre di pioggia e vento, e fastidiose foschie in cui divincolarsi al primo mattino, in un momento di sguardi casuali di chi non ha nulla da aggiungere ma sta indubbiamente cercando qualcosa.
E qualcosa trovarono, ma come poi capita a certi che presi da una sconosciuta foga di ricerca tritano l’oggetto del desiderio in una delle peggiori allucinazioni da bulimici in fasce, trovarono ciascuno ai loro occhi quello che credevano di necessitare, e si acquietarono senza interrogarsi mai sulla sostanze di anime e corpi che andavano preparando a mescolarsi.
E così, così procedettero per lungo tempo ingrassandosi di sicurezze di un legame di acqua e di sale, di sabbia nel sole al termine dei giochi.
Fu un mattino in mezzo agli altri che dovettero ammetterlo di fronte alle due regolarissime fette di pane caldo e marmellata di more e poco burro, che al desiderio avevano rinunciato prima ancora di incontrarlo, come si fa con gli sconosciuti che ci camminano accanto nel buio, scansandoli accuratamente per conservarci in pace.
Arosa, 19 gennaio 2001.
E così ella sapea delle stagioni, e della cosa sola che in tutta vita cercava il passante, come il dottore cos’il mendicante, neppur sapendolo. Così che lo raccolse sulla chiusura di uno di quei bottoni di madreperla che non si usavano più, al termine di una sera di molte, serenamente agitata del movimento d’un dondolo in giardino.
E con la memoria tornaa ai ricordi di tutt’i tempi, e scegliendoli di quelli ch’il tempo gliel’aveano nascosto per ossessione, si soffermaa sui baci giovanili e la passione delle prime notti abilmente sottratta al controllo delle madri di dietro al portone, ai bimbi col pallone, alle solitudini malnascoste dalle ombre lievi della persiana.
E v’era stato poi edoardo, sposato di cert’amore al venticinquesimo, sottratto p’onor di sfida alla maddalena, ch’ella poi avea tenuto pur non volendolo, come si usava fare per condoglianza o per maldicenza, col dono sbagliato, per non v’offenderne.
E in quel momento ch’eppur lui lo seppe e non vi fece piega, con la rassegnazione anziana di chi preferisce un bastone al vuoto inspiegabile della solitudine e porta in dono un piccolo cane, a sostituto indegno dell’amore che non si trattiene, che non ci rimane, ch’abbiam perduto.
Non sapea allora, se era quello il giorno in cui venne a conoscere, che solitudine era la parola, ch’inultimente avea tentato nella disperazione ultima di non pronunciare, di ritenere nell’orlo dell’abito che si togliea davanti al marito senza guardare, in un amore affrettato di pur’emergenze e disillusioni. Così erano arrivati i due figli, alti d’un biondo lucido com’il padre, che ella aveva amato d’amor completo e solidale, in concessione massima di corpo e anima, senz’esitare.
In essi aveva cercato le completudini, le rassicurazioni stanche di mezza vita che confermassero che v’era giusto, e che nulla più si potea chiedere, che certo non v’era attesa di comprensioni ultime o ultimative.
Fu così che v’intrattenne trent’anni di vita in comune, che pur andaa vissuta, ed ella sapea che in fondo ai sospiri dei giorni v’era un incisa poi, e v’insistea sulla sedia, aspettandola al varco.
Così che accade ai pochi, che quando non si aspettano più ormai per conclusioni di niente arriva qualcosa, e nelle sere della maturità sola incontrò maria, che v’avea di forza poco di più, m’indubbiamente molto d’amore, e ritrovò i baci dei tempi perduti ai tempi che ormai non si cercavano più. Tal fu l’ultimo del lungo amare ch’avea conosciuto che quando lei se ne era andata non v’era più nulla, nulla da tendere nè poi da compiere, ed ella in grazia di sè stessa si dondolava, cullandosi del moto lento del pendolo antico, del mobile odoroso su cui poggiava, nel lento passeggiare delle stagioni che ancora tornano e si confondono. Al ritmo leggero del suo rammendare ella null’altro che il temine vi attendea placida, e in dolce attesa alla morte vi cucia una tasca.
Rothenbrunnen, primavera 1968.
E v’era pure ahmed
venuto dall’egitto
cercava in questo stato
uno stato di diritto
trovò l’amore in fluri
che stava a winterthur
sognando di migrare
studiò tedesco eppur
l’impiego d’operaio
portoll’in val bregaglia
e in colpo di mortaio
finiva tal famillia.
Soglio, 13 novembre 1997.
Sventurata fu franzisca
che v’era quindicenne
partita per le spiagge
con vest’i mille fogge
ell’era più che bella
nonchè como conviene
diciamo verginella
e andò in villeggiatura
a conoscer’anca il mare
trovò l’abbronzatura
e sergio poi d’amare
ch’avea studiao germano
un giorno disse hoi
le prese anche la mano
ed ella come mai
finì persa d’amore
seduta ad aspettare
in riva l’ore e l’ore
finchè una sera in spiaggia
bevette senza sosta
così lui le cercava
tal noto nulla osta
e la sfinì di baci
e il resto quel che venne
diciamo anche che al no
lui poi non si trattenne
si prese quel che volle
e la lasciò svenuta
privata delle vesti
che dell’amor perduto
perduti erano i resti
ed il capello biondo
la guancia rubiconda
il mare la portò
nei flutti moribonda.
Felzberg – Bibione, 12 luglio 1987.
ad annette, bambina
E tocca pur’a helena
che d’anni avea ventuno
privata di familia
amare poi qualcuno
così le avean spiegato
e v’ella ci provava
amor non conoscendo
cercava detto spasmo
di cui le ‘vean parlato
ma nulla serbaa orgasmo
poich’ella non voleva
ch’amore foss’in lei
con lui ivi insisteva
per non chiamarsi gay
lasciandolo smarrito
col corpo del reato
ch’ignaro tormentava
il suo utero sfondato.
Sufers, 11 settembre 1988.
a helena, lesbica
Quest’è la storia di claudette
che sola s’arrampicaa in su la montagna
passand’ivi cercaa proseguimento
nell’animo dell’uni e delli altri
ma nulla vi trovò che non lamento
nemmen raffigurat’in forma d’arte
così che si scoprì affaticosata
decise d’annodar fertil fermento
e sola si trovò in tale picchiata
finch’inciampò in tal’altra, letterata
e’nzieme s’allungaano per il cielo
volendo saccheggiar del frutt’il melo
fin’a restarv’appese per un laccio
e meglio di molt’altri
morivano d’abbraccio.
Sils-Maria, 19 luglio 1965.
a claudia, intellettuale
Quest’è la storia di Patricia
ch’al mondo entrò sottile
per parentel’assente
d’amor maldestro e vile
che fu liti violente
e bulimic’abbandono
nutrend’e rimettendo
distrusse gola e core
tacend’e suggerendo
che chi affamato nasce
poi disperato muore.
Tomils/Tumegl, 6 luglio 1981.
a patrizia, incompresa